LA SERA DELLE SETTE CENE

All’inizio furono i Sette Giorni della Creazione. Poi vennero i Sette Peccati Capitali. Sette, un numero sacro e simbolico. Sette, come le sette portate della “Sera delle sette cene”, una fra le più forti e persistenti tradizioni dell’Oltrepò Pavese. 
La Cena si svolge all’antivigilia di Natale ed è composta rigorosamente da portate “magre”. La ragione rituale riporta all’espiazione e al digiuno sacrale che precedono il Natale. La motivazione pratica: prepararsi alla grande abbuffata natalizia di primi, ripieni, salumi, arrosti, condimenti e dolci senza appesantire troppo lo stomaco nei giorni precedenti.

Le sette portate della trazione oltrepadana sono le seguenti, con variazioni di zona in zona:
Insalata di acciughe, peperoni e barbabietole (bidràv)
Torta salata di zucca
Cipolle ripiene di magro (con ripieno a base di pangrattato)
Pasta “reginetta”, con i bordi sollevati, e funghi o, in alternativa, pasta in forma di fascia, simbolo delle fasce pronte ad accogliere Gesù Bambino. La pasta tagliata a fasce è solitamente accompagnata da un condimento a base d’aglio (ajà)
Merluzzo con l’uvetta
Formaggio con mostarda 
Pere giasò (ghiacciolo) e castagne cotte
Un ruolo fondamentale nella sera delle 7 Cene è rivestito dal pane, la tradizionale “micca” o “miccone” che veniva un tempo posta al centro della tavola, spezzato dal capofamiglia e da lui distribuito ai commensali. Il pane avanzato era conservato sino alla festa di Sant’Antonio, il 17 gennaio, protettore degli animali. Gli avanzi erano infatti destinati agli animali della stalla e del cortile, a scopo di protezione.
Alcune annotazioni
Le portate della Sera delle Sette Cene propongono prodotti agroalimentari stagionali o di lunga conservazione naturale, come le pere ghiacciolo (i per giasò), piccoli frutti di forte consistenza particolarmente adatte alla cottura, un tempo conservate per mesi, da ottobre a tutto l’inverno, in locali areati, spesso i solai delle case e delle cascine. Sono ormai piuttosto rari gli esemplari della pianta, autoctona, delle pere ghiacciolo. La presenza delle acciughe, insieme con quella dell’aringa affumicata (la “saraca”) e del merluzzo in un territorio non affacciato sul mare è giustificata dalla presenza delle “Vie del Sale” che dalla Liguria, attraverso i passi appenninici, consentivano il trasporto di alimenti, sale e pesce conservato, anche non esclusivamente del Mediterraneo, nella Pianura Padana e da lì in Oltralpe. Nel vicino Piemonte, ad esempio, sino a tutto l’Ottocento esistevano numerosi situazioni di “acciugai”, spesso bambini, che valicavano addirittura le Alpi per vendere il pesce in Francia, in particolare in Savoia. La “saraca” non compare fra le portate della Sera delle Sette Cene poiché, in un suo modo un po’ particolare, era un cibo quotidiano. La si appendeva infatti a un gancio del soffitto della cucina e vi si intingevano pezzetti di pane. L’aringa andava quindi assottigliandosi, giorno dopo giorno, fornendo più che vere e proprie energie una loro lontana parvenza e soddisfacendo più il palato che lo stomaco. I peperoni sono invece tipici della zona - famoso quello di Voghera - così come gli ortaggi in genere.

Scriveva Luigi Veronelli nel 1974 ad Adriano Ravegnani, autore del volume “I vini dell’Oltrepò Pavese”, ed. Gabriele Mazzotta: “ Invidio, caro Adriano, la tua lunga corsa – se può chiamarsi corsa questa tua che esige lunghe e meditate soste in assaggi – per i vini dell’Oltrepò. Li ho cercati anch’io, un tempo. Ed ogni poco li ritrovo: salgo i colli partigiani e ne ho puntuali rivincite: davvero i contadini oppongono la Barbera e la Croatina (vi è, nei due nomi, come una violenza e ti esalta; scrivi Bonarda e sdilinquisci; smisura almeno la rabbia in corpo) ai dissennati propositi della macchina. Capisci allora perché vedo con qualche dispetto la facile esaltazione dei bianchi – Pinot e Riesling quasi sempre – e preferisco, d’Oltrepò, i vini rossi. Vini, i rossi, di mani fatte vere, usurate dalla fatica. Vini in sé, rustici dapprima, vogliosi di maturare e di essere intesi. Con loro hai colloquio (coi bianchi rapido sussurro, la breve gioia di un troppo rapido possesso)”. I rossi della Valle Versa, di San Damiano, Bosnasco e Rovescala: Bonarda, che si ottiene da uva Croatina, Barbera, Pinot nero vinificato in rosso, Buttafuoco e Sangue di Giuda, entrambi microzone della Val Versa, l’uno possente e l’altro, il piacevole rosso “dolce” d’Oltrepò, amabile. Poi gli autoctoni, quali l’Ughetta di Canneto; non a caso lo stemma del Comune di Canneto rappresenta un vite, allevata secondo il sistema dell’ “alberata”, ossia poggiata su supporto vivo, e ricca di grappoli di uva rossa. Sistema antico, che per lungo tempo convisse con l’allevamento su sostegno morto, risultato poi prevalente e che caratterizza da secoli il panorama vitato dell’Oltrepò. Autoctoni: nel 1884, nella relazione ministeriale che seguì l’unità d’Italia - erano gli anni dell’Inchiesta Agraria Jacini postunitaria - , Carlo Giulietti (“Notizie di ampelografia della Provincia di Pavia) cita la presenza in Oltrepò di 120 vitigni a bacca rossa e di 120 vitigni a bacca bianca. Molti di questi vitigni erano autoctoni. Molti scomparvero a causa dell’epidemia di fillossera, oidio e peronospora di fine ‘800. Molti furono salvati, molti restano: come l’Ughetta di Canneto o Vespolina, l’Uva rara e la Croatina, vitigno simbolo dei rossi d’Oltrepò.